La televisione è sempre
più tentatrice, anche se quest’estate non ci sarà nessun appuntamento di grande
richiamo come negli anni pari
(Europei o Mondiali di
calcio, Olimpiadi ogni quattro anni).
Sì, perché in quel caso
centinaia di ore di trasmissioni di qualsiasi sport a tutte le ore offrono la
tentazione di trasformarsi in sportivo da poltrona.
Tanti
quelli che cedono e sbagliano: il campionato italiano di poltroneria ha sempre
più squadre iscritte e la lotta per lo scudetto è incertissima. Meno
frequentato il campionato opposto, quello degli ossessionati da far sport
sempre e comunque, spesso pure troppo.
Come
per altre attività, è sempre una questione di misura: troppo poco fa male,
troppo rischia di essere devastante. Lo sport può rivelarsi dannoso infatti se
diventa sovraesercizio, iperattività, se arriva a influenzare in modo crescente
l’intera vita. Una condizione sostenuta da insoddisfazione per il proprio corpo
che spesso si lega a disordini alimentari.
La
psicoterapeuta Flaminia Cordeschi, presidente della Federazione italiana
disturbi alimentari e referente della sede romana, ci chiarisce cosa si intende
con esercizio fisico eccessivo e quali sono i meccanismi psicologici che ne
stanno alla base.
Dottoressa,
gli effetti benefici di una regolare attività fisica sono risaputi. Quando
invece l’esercizio fisico può comportare rischi piuttosto che vantaggi per la
salute?
«L’attività
fisica può costituire un fattore di rischio quando spinge ad adottare schemi rigidi
di allenamento e di dieta allo scopo di migliorare la propria performance
sportiva. Per esempio si inseguono forme e prestazioni fisiche perfette
attraverso sovrallenamento, si adottano diete iperproteiche o, peggio ancora,
si utilizzano tutta una serie di manovre finalizzate al controllo di un peso
particolare – uso di lassativi, diuretici, integratori, anabolizzanti ma anche
vomito indotto –. A tal proposito si parla di vigoressia e anoressia atletica,
nuove forme di disturbi alimentari emergenti legate a eccesso di sport».
Cosa
spinge a un abuso di sport – e del proprio corpo – fino a questo punto?
«Alla
base c’è un’alterata percezione dell’immagine corporea, l’idea persistente di
non essere adeguati “dentro” e di conseguenza “fuori”. Allora lo sport diventa
un tentativo disperato di crearsi un’immagine esterna “perfetta” da
contrapporre alla percezione del proprio stato interno. Lo sport diventa
totalizzante: la persona esiste solo sulla base della performance».
Vigoressia
e anoressia atletica: quali sono le caratteristiche di questi disturbi?
«La
vigoressia è tipica dei maschi, giovani, in particolare sono i body builder
muscolosi che non si percepiscono mai abbastanza. Sembra esserci l’esigenza di
ancorarsi a un’immagine corporea idealizzata come copertura e sostegno ai fini
di sostenere l’identità precaria della persona. L’anoressia atletica invece,
tipica delle ragazze, condivide con l’anoressia classica il perseguimento della
magrezza ma in questo caso il corpo magro deve essere soprattutto funzionante
dal punto di vista dell’efficienza sportiva. L’attenersi a un regime alimentare
ristretto è volto a migliorare i risultati sportivi, spesso per compiacere
allenatore o genitore con passione per lo sport».
Esistono
sport più a rischio per sviluppare questi disturbi?
«Sì,
per esempio danza classica, ippica, ginnastica ritmica e ciclismo si prestano
per l’anoressia atletica in quanto il peso basso è particolarmente apprezzato.
Invece per la vigoressia sono favoriti sport sostenuti da un peso importante».
Quali
sono i segnali di una “dipendenza da sport”?
«Allenamento
di molte ore; camminare, muoversi in modo compulsivo; attenzione minuziosa al
cibo, alla quantità e qualità di cosa mangiamo; chiusura sul piano sociale,
preferenza di sport isolati, alterazione del tono dell’umore. E ci sono segnali
medici come per esempio la scomparsa delle mestruazioni per le ragazze, non
dovuta a stress da allenamento o da gara ma a sfruttamento eccessivo del
corpo».
Certi
atteggiamenti estremi appartengono solo agli sportivi professionisti oppure si
possono ritrovare anche tra gli sportivi da palestra e fai-da-te?
«Certe
forme estremizzate e rischiose di tali disturbi si possono trovare in chi
pratica sport agonistico ma possono insidiarsi e trovare terreno fertile anche
negli sportivi da palestra. La palestra, da luogo di benessere, può diventare
così l’ambiente che agevola situazioni di rischio, proponendo stili di vita e
modelli estetici che attecchiscono in modo pervasivo su personalità
predisposte».
Cosa
fare quando si coglie questo tipo di disagio?
«È
il caso di consultare specialisti esperti. Le associazioni appartenenti alla
Federazione italiana disturbi alimentari, presenti in otto città italiane,
promuovono un modello di intervento multidisciplinare integrato, il più
indicato secondo il ministero della Sanità. Secondo le “linee guida” nazionali
e internazionali, infatti, l’approccio multidisciplinare – che coinvolge figure
professionali diverse: psicoterapeuti, medici nutrizionisti eventualmente
psichiatri — risulta più efficace rispetto a interventi frammentati di singoli
professionisti (www.fidadisturbialimentari.com)».
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