A leggere le citazioni dai suoi articoli sembra che Giovanni Tria, scelto
come ministro de ll’Economia del governo Conte, sia un altro euro-scettico del
calibro di Paolo Savona.
Sul sito formiche.net ha sostenuto la necessità di
discutere un’idea lanciata da Giorgio La Malfa e dallo stesso Paolo Savona: che
quando i tedeschi dicono che l’uscita dell’Italia dall’euro è inevitabile per i
suoi problemi strutturali, “il governo italiano dovrebbe reagire sostenendo che
è la Germania che dovrebbe uscire dall’euro perché il suo surplus della
bilancia commerciale non è compatibile col regime di cambi fissi che vige nell’eurozona”.
Sul Sole 24
Ore ha
pubblicato, con l’amico e collega Renato Brunetta, un articolo nel marzo 2017
molto netto: “Non ha ragione chi invoca l’us c it a dall’euro senza se e senza
ma come panacea di tutti i mali, ma non ha ragione neanche il presidente della
Banca centrale europea, Mario Draghi, quando dice che ‘l’euro è irreversibile’,
se non chiarisce quali sono le condizioni e i tempi per le necessarie riforme
per la sua sopravvivenza. Anche perché il
maggior pericolo è l’implo - sione non l’exit”.
MA SAREBBE sbagliato fare un ’equivalenza
tra Savona e Tria. Paolo Savona, che sarà ministro degli Affari europei, è diventato da tempo un membro della
chiesa degli anti-euro più convinti, tanto che i suoi comunicati li affida al
sito scenar i e
c o n o m i c i .i t dove l’addio
alla moneta unica è presentato come la
panacea di ogni male. Tria, 70enne romano della zona borghese di Ponte Milvio,
è invece uno degli europeisti critici che,
da minoranza vocale sono ormai il nuovo m ai nstream. Per conoscere Tria bisogna partire
dalla facoltà di Economia di Tor Vergata, a Roma, di cui è tuttora preside. Quella
facoltà, nata nel 1987, è una creatura dell’economista Luigi Paganetto, voce
molto autorevole nel dibattito sull’Europa,
che ha scelto uno per uno i docenti. Tria e Renato Brunetta diventano
professori con lo stesso concorso ed
entrambi vengono chiamati da Paganetto. Come Brunetta, Tria appartiene a quel filone di economisti che si sono trovati a
gravitare prima in area socialista (il neo ministro siede nel comitato
scientifico sociale della Fondazione Craxi) e poi nel
centrodestra, liberisti ma non estremisti, affascinati dal mito anni Ottanta
dello “Stato minimo”. Per questo oggi Tria non
disdegna l’idea della Flat tax, anche se è abbastanza pragmatico
da non credere alla “curva di Laffer” (più bassa è l’aliquota,
maggiore il gettito: una teoria smentita dai fatti ma ancora popolare). Ha un curriculum lungo,ria, ma
molto più solido di quello di Giuseppe Conte: ha studiato in Cina negli anni
Settanta, poi a New York, Columbia University,
ha lavorato con la Banca mondiale e collaborato
con vari governi, soprattutto con l’ultimo esecutivo guidato da
Silvio Berlusconi. Il solito amico Renato Brunetta, da ministro della Funzione
pubblica, lo aveva voluto come consigliere nella sua battaglia contro i
fannulloni. All’epoca c’erano soltanto due collaboratori che riuscivano a
reggere le sfuriate di Brunetta senza scomporsi: il capo di gabinetto e futuro
ministro Filippo Patroni Griffi e Giovanni Tria.
NEL 2009 Brunetta nomina Tria alla
presidenza della Scuola nazionale per la Pubblica amministrazione e riesce a
ottenerne la riconferma nel 2014 in un intreccio di nomine che oggi
sembra premonitore. Il lungo iter parlamentare per la scelta del nuovo
presidente del l’Istat si sblocca proprio quando arriva il via libera del centrodestra
per il nome di Pier Carlo Padoan. Il quale, però, all’Istat non andrà mai
perché sarà chiamato da Matteo Renzi a fare il ministro del Tesoro, una
poltrona che ora lascia in eredità proprio a Tria. Fino al 2014, Tria ha curato una rubrica sul Foglio, “Diario di due economisti”, l’altro
è Ernesto Felli, un esperto di politica monetaria. In questi anni ha usato
quelle colonne per intervenire spesso in modo polemico nel dibattito economico,
mai però su posizioni sovraniste.
Stefano Feltri
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