In più il giocatore mente a se stesso e a chi gli sta vicino per non farsi aiutare…»
Storie di ordinaria rovina nel nome della fortuna (di L. Fraia)
Schiacciare un bottone, a ripetizione, per tentare la fortuna. Grattare la patina argentata di un biglietto, nella speranza di trovare un tesoro. Il gioco come droga, meccanismi compulsivi che creano dipendenza. Situazioni che Simone Feder, responsabile del settore dipendenze della Casa del giovane di Pavia, riscontra ogni giorno nelle richieste di aiuto che arrivano al suo centro, uno fra i tanti in Italia, uno fra quelli all’avanguardia.
In che senso si può parlare di dipendenza da gioco?
«Siamo dipendenti di fronte a tutte quelle realtà che schiavizzano. Pensiamo a queste situazioni: quando una persona escogita i modi per procurarsi denaro con cui giocare, quando gioca somme di denaro sempre maggiori per raggiungere lo stato di eccitazione desiderato, tenta di controllarsi ma non ci riesce e manifesta comportamenti di irrequietezza, o dopo aver perso torna a giocare rincorrendo le proprie perdite. Come non parlare di dipendenza?».
È una patologia riconosciuta? Può essere curata con le terapie valide per altre forme di dipendenza?
«Purtroppo oggi questa dipendenza non rientra nei livelli essenziali di assistenza e quindi non è possibile per una persona accedere alle strutture per essere “preso in carico” e curato. Anche se la dipendenza è simile a quella della droga o dell’alcol».
Chi può considerarsi maggiormente a rischio?
«Il disagio è trasversale. Si può dire che quella del gioco d’azzardo è una dipendenza democratica: colpisce tutti i ceti sociali e tutte le fasce d’età. I più vulnerabili sono però gli anziani e i giovanissimi. Coloro, cioè, che vivono più di altri una “debolezza psicologica”. Questa debolezza può essere determinata da un avvenimento negativo, anche passato, come un lutto familiare, la perdita del lavoro, la non accettazione del modo di vivere».
Come si manifesta questa dipendenza nei giovanissimi?
«Secondo alcuni studi gli adolescenti sono più esposti al rischio di sviluppare forme di dipendenza e depressione. Oggi le neuroscienze stanno dando un notevole contributo. Il meccanismo studiato suggerisce come la ricompensa possa condurre gli adolescenti a prendere certe decisioni e non altre. Nei giovani è insita la ricerca di sensazioni forti. Il desiderio determina la produzione di dopamina e quindi la compulsione. Molti giovani, soprattutto maschi, in età delle scuole medie dichiarano di avere già giocato alle slotmachine».
Queste situazioni come vengono vissute nelle famiglie interessate?
«Partiamo dal fatto che il giocatore d’azzardo patologico è una persona che, per “alimentare” la sua dipendenza, ha imparato a mentire. Mente su tutto: sul fatto di giocare, sul tempo impegnato, sui soldi spesi. Non si rende conto del disagio che arreca a chi vive con lui. Accade spesso che quando accogliamo in comunità una persona che ha problemi di gioco, dobbiamo occuparci anche di sostenere le sofferenze psicologiche dei componenti della sua famiglia. Ai familiari mi sento di dare un consiglio: se avete il sospetto che un vostro familiare sia un giocatore non state ad aspettare la sua “confessione”. Cercate delle certezze, verificando estratti conto, controllando i suoi spostamenti, e affrontatelo. Convincetelo a farsi aiutare».
Basta, questo, a contrastare la dipendenza dal gioco?
«No, serve anche una maggiore presa di coscienza della società civile. Le sale da gioco aumentano sempre più. Il settore muove gli affari di cinquemila aziende, rappresenta il quattro per cento del Pil nazionale. Ci sono quattrocentomila slot machine in Italia, una macchinetta ogni 150 abitanti. Servono politiche più attente a questo mondo contraddittorio che sbandiera la felicità facile attraverso i mass media nelle case e lungo le vie delle città». (tratto da iltirreno.geolocal.it)
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